"Ladyhawke", ogni ciak una festa a Castellarquato. «Va’ che t’han ciamà par fa la cumparsa»
Sveglia all’alba e 50.000 lire al giorno per i figuranti sul set 40 anni fa. «Avventura indimenticabile»
Federica Duani
April 30, 2025|37 giorni fa

Un gruppo di comparse sul set di "Ladyhawke", girato a Castellarquato nell'autunno 1984
Buon compleanno, Ladyhawke! C’era un papà, nel settembre del 1984, che in piazza S. Carlo a Castellarquato arrivava correndo: «“Movat, che t’han ciamà par fa la cumparsa”: mi urlava di muovermi, perché mi avevano scelta per fare la comparsa e mi aspettavano in piazza del Municipio – racconta Paola Cattadori – . Eravamo in tante comparse, non tutte arquatesi ma in totale almeno una cinquantina, di varie fasce d’età. Popolani: vestiti di sacchi di iuta, sul capo una sorta di cappellino legato con due cordini sotto il mento. Come prudeva!».
A rivivere il set firmato Donner, sono le voci delle comparse locali: la matassa dei ricordi enfatizza tre nodi. Le 50.000 lire, pagamento quotidiano in contanti estratti da una valigetta, la sveglia alle 5 per tre ore di trucco, i panini con la mortadella e la coppa mangiati in pausa. In un batter d’occhi si rivive l’inquadratura sul dettaglio del muro mattoni e pietra della Rocca Viscontea. Da lì pendono due impiccati, colpa del boia: «Ero io, con un cappuccio nero in testa, arrampicato su un trespolo esterno al muro della Rocca, ad un’altezza di circa dieci, quindici metri da terra – spiega Fabrizio Pallastrelli – . Per mettermi la barba usarono una colla sigillante tanto forte che mi irritò la pelle. Dal primo giorno di ripresa ai successivi c’era un fine settimana di mezzo: mi sono fatto crescere la barba, per evitare che accadesse di nuovo».

La sala trucco e i camerini erano al piano terra dell’attuale sede del Municipio, occupavano le prime stanze entrando, a destra e sinistra. Diego Cavozzi da quella barba finta si salvò solo perché «il pizzetto lo avevo già: ero appena tornato da militare. Le maestranze di Cinecittà trasformarono il paese. Tre metri di muro di cinta merlato sulla strada Solata, a coprire la vista sulla vallata e una parete in mattone a chiudere la loggia centrale sotto il Palazzo del Podestà. Una passerella posticcia dal ponte levatoio della Rocca fino al portico del Paradiso copriva i gradini e creava una traiettoria curvilinea: lì , l’iconica scena di Rutger Hauer a cavallo che entra in Collegiata di Santa Maria Assunta».
Hauer, nei panni di Etienne di Navarre, sul set c’era giorno dopo giorno: «Con lui anche Matthew Broderick, mentre Michelle Pfeiffer no: speravamo di parlare con gli attori, ma non riuscimmo», dice Elena Brambilla, lasciando riaffiorare la spensieratezza di un gruppo di amici che sul set trascorrevano almeno dodici ore di attese e chiacchiere, unica distrazione concessa.
Scene girate, poi cestinate. «Un giorno ci hanno fatto guardare verso l’alto a lungo, immobili: dovevamo fingere di guardare l’eclissi, che avrebbero costruito a tavolino. Sul grande schermo l’eclissi c’è in effetti, ma noi no», continua Cavozzi. Li immaginiamo con il naso all’insù, a trattenere risate, circondati dalla frenesia di un paese che per un mese cambiò aspetto. Non solo per materiali di scena, ma per quegli alberghi sempre pieni, i furgoni colmi di vivande per le guest star e le pile di legname atterrate con l’elicottero quindici giorni prima delle riprese. «Lo usarono per le scenografie, al termine lo lasciarono nel borgo: le associazioni lo usarono poi per costruire le baracche lungo l’Arda, usate poi dalla comunità. Avevamo vent’anni ed eravamo giovani di belle speranze. Che rumori ricordo? Le nostre risate, quattro giorni di riprese – conclude Pallastrelli – . E il cast americano, che si notava perché dalle dieci di mattina beveva whisky. I “nostri” invece, intendo gli italiani, vino bianco e vino rosso».