Il social dilemma al quale non c'è soluzione
Redazione Online
October 16, 2020|1694 giorni fa

Non facciamo altro che ripetere che viviamo in una bolla di contatti virtuali che ci assomigliano e che ci rassicurano: se sappiamo questo, sappiamo anche che le persone intorno a noi sono coscienti di come sia costruita la propria “realtà aumentata”, e di quanto sia diversa dal mondo reale o dalle altre bolle virtuali (che comunque contribuiscono ad alimentare il giro dell’informazione del mondo reale).
Da qualche settimana su Netflix (piattaforma che come tutti analizza i nostri dati e decide cosa proporci in base a quello che abbiamo già visto) è comparso “The Social Dilemma” di Jeff Orlowski, documentarista ambientale, vincitore di Emmy.
Da qualche settimana su Netflix (piattaforma che come tutti analizza i nostri dati e decide cosa proporci in base a quello che abbiamo già visto) è comparso “The Social Dilemma” di Jeff Orlowski, documentarista ambientale, vincitore di Emmy.
“The Social Dilemma” comincia scomodando i greci e la parola “maledizione” e poi mette in scena una serie di interviste a personaggi di alto profilo che hanno lavorato per i colossi del web, Google, Facebook, Instagram, Reddit, Pinterest, che poi se ne sono andati per problemi di tipo etico e sono diventati “pentiti” della rete. Capitanati da Tristan Harris, voce principale, dapprima consulente etico per Google, poi presidente e co-fondatore del Center For Human Technology che è partner del documentario, i testimonial usano frasi ad effetto come “il capitalismo della sorveglianza”, “manipolazione delle cavie”, “ciuccio digitale”, citano “The Truman Show”, “Terminator”, “Matrix”, e soprattutto si concentrano sugli adolescenti, messi in scena tramite una (bruttissima) fiction che mostra un ragazzino addicted e depresso che finisce per essere arrestato in una manifestazione perché “istigato” dagli operatori dei social network.
Nella parte finale c’è un momento di speranza, qualche timida proposta sicuramente non risolutiva e alcuni consigli pratici, come disinstallare app e notifiche, non guardare video consigliati, analizzate le fonti, vigilare sui figli (se dovessi proprio tirar fuori una moraletta, direi: Scegli sempre, e soprattutto scegli di essere una persona educata): non si fa mai un solo cenno a tutti gli strumenti alternativi a quelli delle grandi big company.
Recentemente ho visto “Imprevisti digitali”, un filmetto francese decisamente surreale
Recentemente ho visto “Imprevisti digitali”, un filmetto francese decisamente surreale
che racconta la storia di tre amici che per motivi diversi sono diventati schiavi delle intelligenze artificiali, ed erano così umani e divertenti nell’imperativo categorico di proteggere la propria immagine social che ho cominciato a riflettere su quanto sia automatico ormai controllare e proteggere (o pensare di controllare e proteggere) la propria immagine social. E a quanto il fatto che io sia Generazione X (ovvero i nati tra il 1965 e il 1980, il termine viene dal bellissimo libro di Douglas Coupland, e sono anni che aspetto una serie tv tratta dal suo libro “Girlfriend in a coma”, titolo che a sua volta viene da una bellissima canzone dei The Smiths e qui non ve lo posso dire cosa aspetto da anni perché ho smesso di aspettare) incida sulla mia capacità di controllare (o pensare di eccetera) la mia immagine social. La ricetta per “fare buon uso” degli strumenti social non ce l’ha nessuno, tanto meno noi Generazione X che ancora fatichiamo a superare Mark Renton che ci etichettava correndo “Scegliete la vita. Scegliete un lavoro. Scegliete una carriera. Scegliete la famiglia. Scegliete un maxitelevisore. Scegliete lavatrici, macchine, lettori CD e apriscatole elettrici. Scegliete la buona salute, il colesterolo basso e la polizza vita”.
E infatti, ogni volta che gli adolescenti sui social mi sembrano ridicoli, mi ricordo di ringraziare gli dèi per non avere avuto i social quando avevo 16 anni. E quindi, essendo io una fanatica del controllo mi piace continuare a illudermi di avere il controllo, ma devo ammettere che mi sento più vicina di quanto vorrei alla protagonista di un episodio di un’altra serie molto citata in “The Social Dilemma”, ovvero “Black Mirror” di Charlie Brooker. Posso andare avanti all’infinito a celebrare le lodi della prima puntata, “The National Anthem”.
Ma quella che mi ha scosso davvero è “Nosedive” perché vede chiarissimo la Lacie Pound in me.