«Tanti ragazzi stanno male: che fare?». Proposte per la «questione giovanile»

Giovedì alll’auditorium della Fondazione il convegno sull’emergenza educativa organizzato dall’associazione La Ricerca

Redazione Online
May 13, 2025|24 giorni fa
Da sinistra: Luciano Squillaci, presidente nazionale delle comunità terapeutiche Ceis; il professor Ivo Lizzola; una foto d’archivio di don Giorgio Bosini
Da sinistra: Luciano Squillaci, presidente nazionale delle comunità terapeutiche Ceis; il professor Ivo Lizzola; una foto d’archivio di don Giorgio Bosini
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Giovani che stanno male, e che si fanno del male. I casi di violenza sono ormai all’ordine del giorno. E noi? Che facciamo? Che diciamo? «Restiamo senza parole. Il contesto che stiamo vivendo è molto difficile in termini educativi e di socializzazione, e i nostri figli continuano a patirne le conseguenze con fragilità che li portano ad atti di chiusura e asocialità fino alla violenza di branco. Indubbiamente c’è una questione educativa che noi adulti dobbiamo affrontare. Purtroppo negli ultimi 15 anni l’Italia ha smesso di investire nell’educazione, la scuola non può essere ridotta a una sorta di collocamento obbligatorio, le famiglie sono abbandonate a se stesse, mentre non possiamo più lasciarle sole, anche i Servizi territoriali non devono essere tarati solo sulla logica delle patologie ma devono accompagnare la crescita psicologica dei giovani in difficoltà. Certo il Terzo Settore porta avanti tante iniziative e progettualità, ma occorre fare sistema, la società intera è chiamata in causa».
Sul tema giovani-emergenza educativa che sarà al centro del convegno-La Ricerca di giovedì 15 all’auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano, interviene Luciano Squillaci, presidente nazionale delle comunità terapeutiche Ceis-Fict, con alcune considerazioni che lo vedranno tra i relatori dell’evento rivolto in particolare a genitori, insegnanti, educatori: «Ancor più dei fatti di violenza crescono i casi di autolesionismo, isolamento, abbandono scolastico, bullismo, l’uso di sostanze di ogni tipo, legali e illegali, è diventato normalità, il 50 per cento dei nostri ragazzi non prende neppure in considerazione la pericolosità di droghe pesanti come l’eroina e la cocaina. Bere, ubriacarsi, giocare d’azzardo, è considerato cool, è trendy: sintomo che quel qualcosa che non va non è più solo un malessere. E’ il sistema valoriale che è in crisi, ed è qui che dobbiamo cominciare a cambiare, a partire da noi genitori: dobbiamo smetterla di essere iper-protettivi, cresciamo i nostri figli in una sorta di campana di vetro, più che altro per egoismo, perché non vogliamo affrontare le nostre responsabilità, ne abbiamo paura, ma poi finisce che nei passaggi importanti della crescita, già dalle scuole elementari alle medie e poi alle superiori, alle prime difficoltà la campana di vetro si sfascia e loro si ritrovano senza gli strumenti per affrontarle, inappagati, delusi, sfiduciati. Li convinciamo che possono avere tutto ciò che vogliono e nel contempo li mitragliamo di messaggi negativi dicendo che questo è un mondo fatto di ingiustizie dove comandano solo i potenti e vincono i furbi».
Parola d’ordine «cambiamento»: «Il punto è cambiare noi stessi come persone adulte, come genitori, insegnanti, educatori, che agiscono insieme per costruire un sistema valoriale forte. Lo stesso concetto di prevenzione è superato se vissuto come un intervento sanitario. E così pure le comunità terapeutiche – conclude– non possono più essere come le vecchie self-house dove i tossicodipendenti entravano per disintossicarsi, negli anni c’è stata un’evoluzione importante, stiamo andando verso modelli innovativi che propongono percorsi individualizzati sempre più integrati nel territorio, capaci di creare reti relazionali, come parte attiva di un nuovo sistema dove ognuno, ripeto, è chiamato a fare la sua parte dalla famiglia alla scuola al mondo del mercato e del lavoro». «L’accusa reciproca di chi sia più responsabile di quanto sta avvenendo fra i nostri giovani è lo sport del momento, un gioco sciocco, superficiale - rincalza il secondo relatore, il pedagogista Ivo Lizzola, ordinario di Pedagogia sociale e Pedagogia della marginalità all’università di Bergamo -. La famiglia dà la colpa alla scuola, la scuola alla famiglia e tutti se la prendono con le istituzioni. Cominciamo col costruire storie condivise che non lascino sole le famiglie, reti di vite che si intrecciano, si confrontano e si danno forza. Siamo in un momento difficile, complicato, di transizione in cui noi adulti, i genitori, così come gli insegnanti, dobbiamo misurarci con nuove modalità di vita, una nuova tecnologia, nuovi contesti, nuovi linguaggi».
«Quando si parla di questione educativa si sta parlando di un tipo di incontro fra due tempi diversi, il tempo adulto e quello di giovani vite che stanno crescendo, adolescenti che si affacciano al futuro e che vivono di questa esposizione con due spinte opposte: forte tensione all’assoluto e scoperta del limite. Noi adulti dobbiamo offrire uno scenario della convivenza dove il desiderio di vita dei nostri ragazzi possa trovare appoggio, elementi di speranza, luoghi in cui possano misurarsi, perché se questo viene a mancare, si rischia che questa loro tensione esploda manifestandosi in modo brusco, violento anche con episodi di autolesionismo. Gli adolescenti hanno bisogno che noi «grandi» ci comportiamo da credenti, da responsabili, cosa che non sta affatto avvenendo perché attorno abbiamo costruito un mondo di conflitti, guerre che dilagano. Dobbiamo impegnarci a rendere nuovo e ospitale questo mondo dove valga la pena vivere, credendoci». Un consiglio agli insegnanti - Docente universitario da poco in pensione, Ivo Lizzola ha scelto di tornare a misurarsi come insegnante di scuola media. Uno consiglio: «E’ un momento in cui noi insegnanti siamo chiamati ad essere capaci di generosità, capaci di vivere il gusto delle nostre discipline, l’avventura di costruire la conoscenza insieme ai nostri allievi, con passione».  

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