«Eccovi il mio Laos, dove non si sa cosa sia la rabbia»

Nicholas Bosoni, 36 anni, ha scelto di lasciare Rivergaro per vivere a Vientiane nel 2017. Le sue foto, da documentarista, saranno in mostra a Padova a maggio

Elisa Malacalza
Elisa Malacalza
April 23, 2025|45 giorni fa
Uno degli scatti in mostra a Padova. Il Laos visto dagli occhi di Nicholas Bosoni
Uno degli scatti in mostra a Padova. Il Laos visto dagli occhi di Nicholas Bosoni
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A Piacenza sono le 11 del mattino. In Laos, le 16 passate. Nicholas Bosoni, 36 anni, risponde al telefono dalla capitale, Vientiane, dove la vecchia architettura coloniale francese si alterna ai templi buddisti come il Pha That Luang. La sua non è una vacanza: nel 2017 la valigia fatta come le tante che ha aperto e chiuso a Rivergaro, dove è cresciuto, è stata quella di un viaggio che dura da allora. Dal 16 maggio al 15 giugno a Padova, nella cattedrale ex macello di via Cornaro, saranno le sue foto a parlare per lui, al Festival internazionale di fotogiornalismo.
Bosoni, le scuole a Rivergaro, il diploma all’Isii Marconi, la laurea in Economia a Parma. Poi il suo curriculum sembra un’esplosione: mai fermo, sempre in viaggio. Che cercava?
«A 18 anni facevo fatica a trovare la mia strada. Ma già sapevo che mi piaceva muovermi, esplorare, viaggiare. Leggere libri o guardare film che parlassero di posti esotici, lontani. Dopo la laurea ho iniziato a voler cercare il mio posto nel mondo in Australia, dove ho fatto 10-12 lavori tra ristoranti, campi agricoli, resort, costruzioni. Sono tornato dopo un anno in Italia, ma tempo un mese ed ero già in Asia, in Nepal, per un trekking con campo base ai piedi dell’Everest. Ho conosciuto gente che lavorava per progetti di sviluppo concreti, nelle ong. Ho girovagato sei mesi e sono stato accettato a un master di ricerca e sviluppo internazionale in Olanda. Era il 2014. Sono tornato in Europa».
Solo fino alla tesi, però, giusto? Poi riparte.
«Sì. Perché poi ho capito che potevo ripartire per la tesi, andare a indagare l’opposizione all’idroelettrico sull’Himalaya, e poi fare il tirocinio in Laos, approfondendo quello che potremmo tradurre con accaparramento dei terreni. Una ricerca sulle concessioni terriere, sulla massiccia presenza delle multinazionali, su Stati ricchi di capitali e pronti a comprare risorse naturali. Mi si è presentata dopo la laurea magistrale nel 2016 la possibilità di lavorare nel Centro di ricerca dell’Università di Berna, in Svizzera e questo mi ha dato la possibilità, dal 2017, di lavorare in Laos, per tre anni».
Nel 2020, finiti quei tre anni, che strada ha scelto? Poteva tornare...
«O prendevo la strada del dottorato, o restavo in Laos come freelance. Ho scelto la seconda. Ho preso la moto e ho fotografato tutto quello che, prima, per lavoro, vedevo solo sulle cartine geografiche, anche perché le infrastrutture in Laos sono quelle che sono, non è facile muoversi».
Ma perché proprio la fotografia?
«Perché è un’ossessione, è quel cui penso appena mi sveglio e un attimo prima di addormentarmi. Ma mi chiedevo se potessi viverci, di fotografia. I conti, si sa, devono tornare a fine mese. Comunque, mentre me lo chiedevo, ho iniziato il mio progetto di fotografia che arriverà a Padova. Si chiama Weaved in Silk. E sì, sono contento».
Cosa racconta?
«Esplora la trasformazione socioeconomica in atto in Laos, Paese di governo comunista e senza sbocco sul mare nel cuore del Sud-est asiatico. Il Laos sta passando rapidamente da una società agraria tradizionale a un’economia moderna, un cambiamento fortemente influenzato dalla Cina. Qui non c’è un’industria trainante. Il Laos vive di affitto di terre e tasse. Io, intanto, non ho sponsor, vivo il mio progetto come qualcosa di personale».
In futuro si immagina ancora in Laos?
«Non ho intenzione di stare in Laos tutta la vita, se è questo che intende. Per un paio d’anni credo proprio di sì. Ma non so fare piani a lungo termine. Qui di certo ho conosciuto la mia compagna, che è francese. Le scelte future si faranno ovviamente in due. In Italia ritorno intanto ogni estate, sempre con la macchina fotografica. Ed è bello abbracciare i miei amici e la mia famiglia. Mi aiuta a rimettere le cose in prospettiva. Voglio sempre occhi puliti sulla vita».
E ha trovato una risposta alle sue domande? Con la fotografia si può vivere e pagare la spesa?
«Non ho trovato risposte ma un equilibrio. Per l’80 per cento del mio tempo mi dedico alla fotografia e ai reportage, e per il 20 per cento lavoro in un’agenzia di consulenza che lavora nel settore dello sviluppo e della cooperazione. E questo è il mio reddito».
Cosa le ha insegnato il Laos?
«Quando c’è un problema qui lo affrontano in modo completamente diverso rispetto a come sono stato abituato in Italia. Arrabbiarsi non porta a nulla. Non arrivano mai al conflitto in Laos. Dire a qualcuno »hai sbagliato« non è accettabile. Ci girano intorno, insomma. C’è un detto che mi ha sempre colpito, ed è Non ci sono conflitti, solamente incomprensioni».
E l’aspetto che più la mette a disagio, o la irrita?
«Riscriva pure la risposta sopra. A volte si ha bisogno di un documento e loro prendono sempre la vita come viene. Se servono due settimane per averlo servono due settimane. Guai arrabbiarsi». 

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