Torna "Black Mirror", la serie tv che racconta lo «specchio nero» del genere umano
Ora disponibile su Netflix, la serie ideata da Charlie Brooker riflette sulle nostre paure e fragilità
Fabrizia Malgieri
April 26, 2025|42 giorni fa

Un episodio dell'ultima stagione della serie tv "Black Mirror"© Libertà/Fabrizia Malgieri
«Stiamo vivendo una puntata di “Black Mirror”». «È talmente surreale da sembrare un episodio di “Black Mirror”». Quante volte abbiamo sentito amici e familiari, magari appassionati di serie televisive distopiche, pronunciare frasi di questo tipo negli ultimi anni, magari a commento di eventi impensabili – ma sfortunatamente reali – che stanno caratterizzando la nostra quotidianità.
La serie britannica antologica, creata da Charlie Brooker nel 2011, è diventata presto la messa in forma dei nostri incubi peggiori: un uso (abuso?) delle nuove tecnologie in mondi futuri (ma non troppo), che rischiano di ritorcersi contro di noi. Ma cosa è davvero il “Black Mirror” di cui parla la serie? Sono davvero le tecnologie avanguardistiche il grande tema di questo prodotto seriale? Nata dalle ceneri di una serie televisive di fantascienza più amate della storia - stiamo parlando di “Ai confini della realtà” (1959-1964), ovviamente! - “Black Mirror” si è conquistata uno spazio importante nei cuori degli appassionati del genere. Eppure, lo «specchio nero», l’anima oscura che funge da collante tra i diversi episodi di ciascuna stagione, non è quella che corrode le macchine digitali, tutt’altro: “Black Mirror” racconta la brutalità che si insidia nell’essere umano, saccente e spocchiosa creatura che a causa della sua (miope) visione antropocentrica si arroga il diritto di governare questo Pianeta. Non c’è salvezza per l’umanità in “Black Mirror”: ogni episodio si chiude con un finale cupo (o, nel migliore dei casi, dolce-amaro) dove il genere umano è costretto ad arrendersi alle sue fragilità e alle sue debolezze. Le tecnologie - creazione stessa dell’uomo - funzionano solo da espediente narrativo per alzare il velo sull’orrore insito in ciascuno di noi: videogiochi, chatbot, anime e coscienze riprodotte in modo artificiale, sono solo alcuni degli strumenti attraverso cui Brooker guida lo spettatore a guardarsi dentro e a scavare nel profondo della propria anima, tirarla fuori e osservarla.
La settima stagione - disponibile da qualche giorno su Netflix - torna in qualche modo alle origini della serie, si ricongiunge con quelli che sono sempre stati gli intenti che hanno mosso il suo universo narrativo - quanto meno nelle prime tre stagioni, prima che la piattaforma OTT di proprietà di Reed Hastings ci mettesse lo zampino. Perché “Black Mirror”, in quelle primissime tre season, non ha mai puntato a impressionare lo spettatore, a lasciarlo a bocca aperta con episodi eclatanti: la bellezza dei primi “Black Mirror” risiedeva nella loro capacità di logorare l’anima dello spettatore a poco a poco, come una goccia d’acqua che scava con pazienza la roccia, lasciandolo completamente consumato alla fine dell’ultimo episodio, senza che se ne accorgesse.
Questa settima stagione funziona esattamente allo stesso modo: nonostante non ci sia un ordine cronologico preciso con cui guardare ogni puntata (è una serie antologica, ogni episodio è indipendente l’uno dall’altro), la loro visione, anche in ordine sparso, è capace di far montare dentro il cuore un profondo senso di angoscia, silente e invisibile, che prende corpo e forma solo a stagione conclusa.
È difficile scegliere quale sia stato il nostro episodio preferito di “Black Mirror 7”, e questo perché ciascuno possedeva un’energia tanto respingente quanto magnetica. Il tema di fondo di questa stagione è indubbiamente l’amore - o meglio, l’ossessione per l’amore: che si tratti di amorevole cura per creaturine virtuali simili a Tamagotchi (come in “Come un giocattolo”) che sconfina in delirio, di incapacità di scindere tra amore reale e virtuale (come in “Hotel Reverie”), fino all’amore ossessivo per se stessi (come in “Bestia Nera”) o all’imperizia di lasciare andare un’anima che non può appartenerci più (come in “Gente Comune”), “Black Mirror” riflette il buio della nostra anima con durezza, senza lasciare scampo allo spettatore. Sebbene non manchino momenti di leggerezza, arrivando persino a momenti di umorismo, la nota dolente è che si tratta comunque di un sorriso amaro: la consapevolezza che siamo succubi della nostra stessa umanità, una trappola da cui appare difficile sfuggire. Facile dare la colpa alle fantomatiche “nuove tecnologie”: quante volte abbiamo accusato internet o i social per la nostra pessima condotta da esseri umani; ma è davvero colpa delle macchine, cui noi stessi abbiamo dato vita, oppure la responsabilità delle nostre cattive intenzioni sta tutta in quello che siamo? La grandezza di “Black Mirror” sta nel fatto che non dà risposte allo spettatore, ma gli permette finalmente di porsi delle domande, mettersi in gioco; scendere da quel piedistallo da cui fa fatica a spostarsi, e provare a guardarsi dentro con grande e necessaria umiltà.
Una lezione di vita che la serie tv di Charlie Brooker continua a ricordarci, episodio dopo episodio, stagione dopo stagione, ma che - nonostante i diversi avvertimenti - ci ostiniamo a non cogliere o ad apprendere.
La serie britannica antologica, creata da Charlie Brooker nel 2011, è diventata presto la messa in forma dei nostri incubi peggiori: un uso (abuso?) delle nuove tecnologie in mondi futuri (ma non troppo), che rischiano di ritorcersi contro di noi. Ma cosa è davvero il “Black Mirror” di cui parla la serie? Sono davvero le tecnologie avanguardistiche il grande tema di questo prodotto seriale? Nata dalle ceneri di una serie televisive di fantascienza più amate della storia - stiamo parlando di “Ai confini della realtà” (1959-1964), ovviamente! - “Black Mirror” si è conquistata uno spazio importante nei cuori degli appassionati del genere. Eppure, lo «specchio nero», l’anima oscura che funge da collante tra i diversi episodi di ciascuna stagione, non è quella che corrode le macchine digitali, tutt’altro: “Black Mirror” racconta la brutalità che si insidia nell’essere umano, saccente e spocchiosa creatura che a causa della sua (miope) visione antropocentrica si arroga il diritto di governare questo Pianeta. Non c’è salvezza per l’umanità in “Black Mirror”: ogni episodio si chiude con un finale cupo (o, nel migliore dei casi, dolce-amaro) dove il genere umano è costretto ad arrendersi alle sue fragilità e alle sue debolezze. Le tecnologie - creazione stessa dell’uomo - funzionano solo da espediente narrativo per alzare il velo sull’orrore insito in ciascuno di noi: videogiochi, chatbot, anime e coscienze riprodotte in modo artificiale, sono solo alcuni degli strumenti attraverso cui Brooker guida lo spettatore a guardarsi dentro e a scavare nel profondo della propria anima, tirarla fuori e osservarla.
La settima stagione - disponibile da qualche giorno su Netflix - torna in qualche modo alle origini della serie, si ricongiunge con quelli che sono sempre stati gli intenti che hanno mosso il suo universo narrativo - quanto meno nelle prime tre stagioni, prima che la piattaforma OTT di proprietà di Reed Hastings ci mettesse lo zampino. Perché “Black Mirror”, in quelle primissime tre season, non ha mai puntato a impressionare lo spettatore, a lasciarlo a bocca aperta con episodi eclatanti: la bellezza dei primi “Black Mirror” risiedeva nella loro capacità di logorare l’anima dello spettatore a poco a poco, come una goccia d’acqua che scava con pazienza la roccia, lasciandolo completamente consumato alla fine dell’ultimo episodio, senza che se ne accorgesse.
Questa settima stagione funziona esattamente allo stesso modo: nonostante non ci sia un ordine cronologico preciso con cui guardare ogni puntata (è una serie antologica, ogni episodio è indipendente l’uno dall’altro), la loro visione, anche in ordine sparso, è capace di far montare dentro il cuore un profondo senso di angoscia, silente e invisibile, che prende corpo e forma solo a stagione conclusa.
È difficile scegliere quale sia stato il nostro episodio preferito di “Black Mirror 7”, e questo perché ciascuno possedeva un’energia tanto respingente quanto magnetica. Il tema di fondo di questa stagione è indubbiamente l’amore - o meglio, l’ossessione per l’amore: che si tratti di amorevole cura per creaturine virtuali simili a Tamagotchi (come in “Come un giocattolo”) che sconfina in delirio, di incapacità di scindere tra amore reale e virtuale (come in “Hotel Reverie”), fino all’amore ossessivo per se stessi (come in “Bestia Nera”) o all’imperizia di lasciare andare un’anima che non può appartenerci più (come in “Gente Comune”), “Black Mirror” riflette il buio della nostra anima con durezza, senza lasciare scampo allo spettatore. Sebbene non manchino momenti di leggerezza, arrivando persino a momenti di umorismo, la nota dolente è che si tratta comunque di un sorriso amaro: la consapevolezza che siamo succubi della nostra stessa umanità, una trappola da cui appare difficile sfuggire. Facile dare la colpa alle fantomatiche “nuove tecnologie”: quante volte abbiamo accusato internet o i social per la nostra pessima condotta da esseri umani; ma è davvero colpa delle macchine, cui noi stessi abbiamo dato vita, oppure la responsabilità delle nostre cattive intenzioni sta tutta in quello che siamo? La grandezza di “Black Mirror” sta nel fatto che non dà risposte allo spettatore, ma gli permette finalmente di porsi delle domande, mettersi in gioco; scendere da quel piedistallo da cui fa fatica a spostarsi, e provare a guardarsi dentro con grande e necessaria umiltà.
Una lezione di vita che la serie tv di Charlie Brooker continua a ricordarci, episodio dopo episodio, stagione dopo stagione, ma che - nonostante i diversi avvertimenti - ci ostiniamo a non cogliere o ad apprendere.